Koch Mazzetti Venerandi Colombini

prendi la collana e scappaGiovini lettori di lamerotanti, vi spammiamo che fino al 31 agosto prossimo venturo, è possibile avere gli ebook interattivi, ipertestuali, i romanzi non lineari, le narrazioni click-and-read, gli ebook-game, chiamateli come vi pare, comunque tutti i primi quattro titoli della collana di narrativa interattiva polistorie a cinque miseri euro, che manco una margherita.

Dentro ci sono i giovani scrittori di lame Koch, Venerandi e Mazzetti e anche il giovane coder Enrico Colombini, tutti impegnati a fare avanguardia narrativa digitale, mica pizze e fichi.

Potete usufruire di questa incredibile offerta collegandovi al sito di quintadicopertina e allegando il logo di lamerotanti come cupòn, ritagliandolo direttamente dal monitor. Oppure anche senza, il prezzo non cambia.

Non perdete questa grande occasione di farvi una vera cultura, una volta tanto. Stay tuned!

La mia personale esperienza di vita con Steve Jobs.

Eravamo io Steve Jobs e McLuhan, e Steve Jobs stava spiegandomi l’uso corretto della pinza per aragoste, con dovizia di particolari perfino eccessiva, quando da dietro vedo McLuhan che prende una piccola rincorsa e tira un calcio di punta nella zona posteriore del polpaccio di Steve Jobs. Oh, dico un calcio di punta ben dato, di quello che si dànno di solito al supertele nelle partite estive di porta a porta.
Jobs arranca, mi si aggrappa a un braccio, manda un gemito sottomesso, poi si gira all’indietro e manda un’occhiata furibonda e cavernosa a McLuhan che, per tutta risposta, inizia a far roteare l’indice verso l’alto, come ad avvolgere invisibili spaghetti. E sorride facendo una specie di fischietto.
Firulì firulà, una cosa del genere.
Fu in quel momento che Jobs infilò una della sue due mani in bocca e ne tirò fuori un piccolo osso, una specie di chela di gambero o di aragosta, e senza dire niente la allungò a McLuhan che –a quel gesto– smise di ridacchiare e fece un mezzo passo indietro.
Ma ormai era troppo tardi, la chela si stava moltiplicando in migliaia, cosa dico migliaia, in centinaia di milioni di piccole chele identiche alla prima che iniziarono a muoversi e mordere furiosamente tutto quello che incontravano.
Fu in quel folle masticamento che persi di vista McLuhan e iniziai a frequentare più da vicino Steve Jobs che, all’epoca, non voleva ancora farsi mitridare.

Messaggio privato ma non terminato agli alieni

Io non ho niente contro gli alieni. Sono alieni, ci sono da sempre, però penso che dovrebbero starsene a casa loro. Il vostro pianeta sta morendo? avete finito l’energia galattica? l’acqua è riarsa e la vostra civiltà millenaria sta per scomparire? Nessun probleama, noi vi aiutiamo, ma a casa vostra. Sul vostro pianeta, qualsiasi esso sia. Manderemo un cargo, un grosso cargo dei nostri, con dei sacchi di iuta. Dentro i sacchi, riso. Stiamo parlando di centinaia di sacchi di riso che noi, gratis, mandiamo a casa vostra. Robusti sacchi di iuta che poi porebbero essere usati anche per altre cose. Tipo se li bruciate ci fate dell’energia, il calore genera energia, dovrebbero saperlo anche degli alieni tecnologicamente avanzati come voi.

Ecco, se ve ne state a casa vostra, ve ne mandiamo centinaia. Con del riso, che voglio dire con il riso ci fai di tutto, polpette, risotti, minestre, se semini il riso poi nascono le piante di riso e puoi mangiare anche quelle. Verdura.

Nel cargo potremmo anche mettere delle femm

Ricercare

immagineIl posto dove si teneva il famoso laboratorio di scrittura Ricercare era una struttura antica a due piani, il tipico posto post-fichetto, soffitti altissimi, affreschi, stucchi bianchi, marmi, tavolozzi in legno, e la grande sala delle letture che era la versione messa a lucido dell’aula magna di un qualunque liceo classico provinciale.
Il posto era gremito di tutto quello che ruota attorno al reparto editoria: scrittori, editori, poeti laureati, agenti letterari, giornalisti, artisti in genere, avvoltoi, politici e critici, tutti mescolati ad un pubblico di aspiranti scrittori, aspiranti editori, aspiranti poeti laureati, aspiranti agenti letterari, aspiranti giornalisti, aspiranti artisti in genere, aspiranti avvoltoi, aspiranti politici e aspiranti critici, in un frullamento di membra che andava stringendoli ed allargandoli, fino a farne un indistinto pastone, di per sé ben diviso per casa editrice, città, giornale, corrente letteraria, fonte di stipendio e altre cose del genere.
“Dio mio” disse Bonaventura entrando nella bolgia e cercando con gli occhi il Koch, che doveva essersi fatto piccolo piccolo per il terrore, era sparito.
Mentre il Bonaventura, forte dei suoi due caffé e perplesso ancora per il fatto di essersi svegliato con un braccio dello Strindberg sotto alla maglietta alla pelle che giochicchiava (lo Strindberg) con i suoi (di Bonaventura) peletti capezzoidali e un secondo braccio infilato sotto alle mutande sue (del Bonaventura) mentre tirava (lo Strindberg) dolcemente e poi mollava svariati peletti pubici (del Bonaventura ovviamente), perplesso -dicevamo- per il fatto di aver trovato la cosa tutt’altro che spiacevole (sempre Bonaventura), mentre lui, dunque, forte dei suoi due caffé presi con lo Strindberg sotto l’albergo che faceva finta di nulla (lo Strindberg) ma ogni tanto si passava una mano sotto i baffetti ispidi (sempre lo Strindberg qui, fino a fine periodo) e aspirava voluttuosamente gonfiando il suo viso verde, ecco, mentre il Bonaventura forte dei suoi due caffé girava la testa ora a destra ora a sinistra a cercare il Koch, una voce amplificata avvertiva che si iniziava e si lanciava in una presentazione e ringraziamenti vari a tutti gli enti e tutti i politici che avevano sganciato i soldi anche quell’anno per la manifestazione che eccetera, tradizionalmente eccetera, la letturatura eccetera, eccetera.
E qui avveniva questa esplosione centripeta, nel senso che mentre nella sala centrale cominciava la rappresentazione per la quale tutto il pubblico era accorso, nelle salette laterali si dava avvio a un incontro sommesso e sussurrato di scrittori ed editori, tutti preoccupati a scambiarsi diritti di autore come se fossero figurine panini, con tanto di serie a, b e c e anche di scudetti, e poi mani che si tendevano gente che guardava il soffitto, mentre da distante Bonaventura vedeva il corpicino del Koch, abbandonato solo su di una sedia maròn nel mezzo della sala, completamente fottuto dalla stanchezza, con gli occhi rossi dal sonno, con la testa che ciondolava e che di tanto in tanto crollava nel mezzo del petto, per poi risollevarsi, come un pallone aerostatico giunto alla sua cosiddetta fase diapason, nella quale si accascia e si rialza non avendo abbastanza gas nervino per slanciarsi in alto ma non così poco da rilassarsi a terra come un, boh, budello suino.
Bonaventura si sedette a fianco del Koch che, quando si accorse dell’arrivo del compagno, disse a bassa voce domani mi ammazzano, nient’altro che questo , domani mi ammazzano.
In quel momento la giornalista americana salì i suoi tre gradini e iniziò a leggere al microfono, muovendo la grossa bocca viola, e -per quanto Bonaventura si mettesse di impegno- non si sentiva niente, solo un continuo rumore di bocca.

(tratto da L’ultima avventura del signor Buonaventura)

Nei videogiochi ci sono sempre le cose migliori.

Oggi Vanity ha i capelli rosso fuoco. Si chiama ‘vulcan island’ è il nome della tintura. È seduta su un puf color arancione, sprofondata, con la schiena che le fa male da quanto è rilassata. Le finestre sono aperte, tutto è spalancato, fuori c’è un sole tropicale, si sente il suono dei grilli che viene dai prati, tutta campagna, il rumore di voci, l’odore tremendo della carne che arrostisce. Tutti gli uomini hanno il cazzo duro, prima o poi.
Vanity ha in mano un bicchiere di bianco, è frizzante, fa venire sonno e fa vomitare. Da quando ha avuto la bella idea di venire alla grigliata è l’unica cosa che ha preso, bianco vermentino. Forse non è vermentino. Allunga una mano fino al gomito e inizia a grattare finché non si stacca un pezzetto di crosta, allora lo prende e lo infila in bocca e inizia a mordicchiarlo fino a spezzarlo a pezzettini che si attaccano ai denti. Non sa di sangue. Non sa di niente.
Mentre andava all’aeroporto è caduta con la moto, scivolata sull’asfalto si è raschiata via la pelle del gomito e del ginocchio, è arrivata al check-in con i pantaloni infangati e sangue che le colava sulla maglietta, era splendida, era terribilmente splendida anche se non aveva ancora i capelli vulcan island. Se avesse avuto i capelli vulcan sarebbe stata perfetta.
Raschia ancora una crosta e sente male. Spera che togliendo la crosta venga fuori il buco rosso, che si veda la carne, il sangue bagnato. Invece sotto c’è solo una pelle rugosa e incerta, nuova. Come nasce in fretta la pelle. Vanity sente qualcuno che la chiama, da fuori. L’unico motivo che potrebbe spingere vanity ad uscire è che ha visto che hanno cominciato a girare le canne, ma quello che la tiene lontana mille miglia da fuori sono le madri. Le madri.
Hanno una decina di anni in più di vanity e oggi si celebrano. Circondate dagli esserini fragili che urlano e cadono e piangono e chiedono e corrono, celebrano il loro essere madri, si muovono come imperatrici perché sono delle madri. Parlano tra di loro e intanto amministrano la casa e quei cosi, quei granchietti maleducati. Vanity delle madri in questione pensa che siano delle nullità. Sembrano attrici, gesticolano come se stessero recitando in qualche reality, fanno dell’umorismo, declamano le glorie dei loro mariti. Parlano dei figli, alla nausea, delle maestre dei loro figli, degli insegnanti dei loro figli, degli amici dei loro figli, delle madri degli amici dei loro figli, delle malattie dei loro figli, di quanto siano fantastici, intelligenti e sensibili i loro figli, gli stessi che da ore urlano e piangono per qualsiasi cosa. Bisanzio.
L’odore di carne entra dalla finestra e prende lo stomaco della ragazza che ha problemi alimentari, tanto per cominciare non mangia carne. Vomita a solo pensare di mangiare carne ed è andata a una grigliata, ma quanto sono stronza, pensa, a una grigliata, che stronza. L’odore della carne bruciata, abbrustolita, il pensiero del grasso che si scioglie per il calore, cola sulla griglia e cade nel carbone facendo partire delle piccole fiamme animali; e anche tutta la carne che suo padre le faceva mangiare quando era una bambina, i ceffoni se non mangiava la fettina fatta all’olio. Con quello che era costata.
Era dura. La fettina fatta all’olio di suo padre era dura, durissima, poteva masticarla fino a spaccarsi i denti perché era carne di scarto, era la carne economica, era la carne per poveracci. Dura e senza gusto, sembrava una spugna rassodata.
Suo padre faceva spessissimo la fettina all’olio per lei e per suo fratello, perché si faceva in due minuti. Non è un piatto che abbia bisogno di una ricetta la fettina all’olio, si prende una padella si mette sul fuoco, si mette un po’ di olio dentro, si aspetta un attimo che si scaldi e poi ci si mette sopra una larga, dura, rossa fettina di carne che inizierà a sfrigolare e a mandare nella cucina quell’odore di olio e di carne fritte assieme, un odore dolciastro che Vanity ha ancora dentro la testa. Dopo un po’ girarla. A cottura ultimata, cioè quando la carne ha assunto il suo colorito marrone, allora buttare sopra del sale, quando basta. Servire calda ai figli con contorno di pomodoro tagliato a metà in senso orizzontale e riempito di olio fino a esondare. Sale quanto basta. Dire che la carne si mangia tutta, con quello che è costata non si lascia neanche un pezzo. Ceffoni.
Suo fratello la mangiava lentamente e quando suo padre andava nell’altra stanza a vedere la televisione o si chiudeva nel cesso a fare Quelle Cose Che Vanity Avrebbe Preferito Non Scoprire Su Suo Padre (da ora in poi nel racconto, QCCVAPNSSSP), allora suo fratello prendeva il piatto, si alzava in piedi, andava fino alla finestra che dava nel vuoto del condominio, e con una forchetta la faceva cadere di sotto. Poi si risedeva e senza dire niente fissava Vanity che masticava piangendo e avrebbe masticato finché suo padre non fosse venuto a darle i due ceffoni, i vecchi cari due ceffoni tanto promessi, e allora finalmente se ne sarebbe andata a letto, era per questo che piangeva, era un pianto preventivo.
Suo fratello non era un bastardo, era qualcosa di diverso. Vanity amava suo fratello, lo aveva cercato in cento occasioni, con i ginocchi sbucciati, con la faccia rossa di sberle, e suo fratello era sempre venuto. Non si era mai comportato da bastardo con lei, ma come qualcosa di diverso. Di diverso da un fratello, certo.
Fuori si sente di nuovo urlare, ridono. Vanity si passa un dito sulla crosta del gomito e tira dolcemente. Questa volta fa più male di prima, deve essere un pezzo che va in profondità. Vanity tiene la punta dell’unghia sotto la crosta, tira fino a sentire male e poi lascia andare e poi riprende ancora, finché la crosta con una fitta viene via, è un pezzo grosso. C’è del bagnato. La ragazza si infila la crosta in bocca e inizia a tagliarla con i denti e intanto si guarda il gomito, ora c’è uno strappo nella pelle, si vede del bagnato. La voce del fratellone echeggia da fuori, ci sono delle nuvole basse, sono arancioni per il tramonto, hanno un colore da videogioco. Nei videogiochi ci sono sempre le cose migliori.
Vanity fa uno sforzo in avanti e poi si alza. Barcolla. Va fino alla finestra, si appoggia con i gomiti sul davanzale, osserva il prato e la griglia che manda un fumo chiaro. Davanti ci sono i maschi che parlano, gli amici di suo fratello. Sani amici di suo fratello. Sono molto allegri, si muovono e parlano, si avvicinano in gruppetti da due e da tre si dicono qualcosa e poi si allontanano. Qualcuno sta a muovere la carne sulla brace, guarda le femmine sudando, c’è un caldo terribile. Un biondino con i capelli lunghi ha lasciato i maschi e si è messo nel mezzo delle mamme, c’è sempre un maschio che va dalle mamme, Vanity è una che nota queste cose e poi ci ricama sopra. Il biondino ridacchia e dice qualcosa a voce alta a Patrizia. Ha la pelle gialla, deve essere straniero. Arabo. La moglie di suo fratello è vestita da sesso, ha un vestito corto e morigerato che fa venire ancora più sesso, Vanity odia francamente Patrizia.
Dalla finestra alla terra quanto ci sarà? Due metri fino allo stipite porta-giardino e poi un altro metro e mezzo tra lo stipite della porta-giardino e l’inizio della finestra. Tre metri e mezzo circa. Vanity fissa lo spazio vuoto che c’è tra lei e la terra e pensa a come potrebbe cadere da tre metri e mezzo, cosa succederebbe. Buttandosi in avanti finirebbe con la testa sulle piastrelle davanti alla porta, sarebbe un colpo secco, sarebbe più che doloroso. Sarebbe inutile. Nevio adesso ha in mano dei fogli di giornale con cui fa vento per alzare il fuoco della piastra. Il biondino continua a scherzare con Patrizia e Nevio inizia a osservare la scena. La cosa migliore sarebbe cadere di gambe, come buttarsi di sotto, si potrebbe slogare una caviglia o spezzare una gamba, rotolerebbe a terra e poi vedrebbe la gamba storta con l’osso spezzato che spinge contro la pelle tumefatta. Griderebbe. Sarebbe una cosa diversa. Ma dovrebbe scavalcare la finestra, mettersi a cavalcioni, come l’uovo di Alice. Come si chiamava. Nevio ha messo via la carta e ora con un grosso forchettone gira la carne, ogni tanto si volta verso il biondino, Patrizia ride e parla, il biondino non sta zitto un attimo. Uno dei bambini che corrono nel prato ha visto Vanity e la chiama, Nevio si gira verso di lei. Humpty qualcosa, un nome del genere. Tiene ancora in mano il forchettone il fratellone, è rimasto immobile a fissarla. Nel forchettone c’è una salsiccia, grossa e tumida.
‘Ciao ciao fratellone’ pensa Vanity facendo un saluto con la mano a Nevio che fa un passo verso di lei, sempre con il forchettone in mano. Oppure potrebbe sbilanciarsi di lato, scivolare nel vuoto tenendosi la testa fra le braccia, sbattere sulle piastrelle con i gomiti, i polsi. I denti sbatterebbero si spezzerebbe qualcosa. Tre giorni prima attorno alle sei del mattino Vanity correva con il centocinquanta verso l’aereoporto, pioveva non c’era nessuno. Alla rotonda prima del centro commerciale Vanity aveva girato verso destra e poi di scatto a sinistra e poi ancora a destra, la moto era sbandata, lei era caduta raschiandosi braccia e gambe per un metro buono, la moto le era rimasta sulla gambe lei era sotto che urlava, non riusciva a spostarla. Godeva.
Sotto la pioggia sentiva dolore in tutto il corpo, la marmitta le bruciava una coscia, lei urlava e basta, non muoveva un muscolo. Sarebbe rimasta li sotto per ore, sotto la pioggia, con la marmitta rovente, la pelle strappata. Tutto che le girava intorno. Stava così bene, era così emozionata. Si sentiva così viva.
Vanity dondola la testa al di là della finestra e cerca con un piede un appoggio sul puf per sporgersi ancora di più in avanti, cerca di capire come potrebbe essere sicura di cadere di lato e non di testa, mentre il fratellone ha fatto cadere il forchettone con la salsiccia per terra, ha iniziato a correre per il prato. Sembra un giocatore di rugby e viene verso di lei, come se Vanity fosse la meta. Le femmine alzano la voce, Patrizia dice qualcosa e cammina verso la casa a passo lento, il biondino si mette a correre anche lui, sembra la parodia di suo fratello.
Tutti vanno verso Vanity che sorride, fa un gesto con la mano e poi sbalza in avanti, ruota come non pensava e cade di schiena, un tonfo che fa un rumore normale. I bambini corrono verso la casa sono felici, le madri urlano ai figli di stare fermi di non fare niente mentre Vanity vede solo il cielo, quelle nuvole che ormai stanno diventando grigie e dice lasciate che i bambini vengano a me e poi niente.

II
“Non sto male” dice Vanity.
Genova d’agosto sembra Genova a settembre, solo tutto è arido. Non fa caldo, Vanity si muove con lentezza, si aiuta con il bastone di metallo, le piace il bastone di metallo, sono diventati amici, lei e il bastone. Si chiama freddy, il bastone, perché è freddo.
Andrea cammina vicino a Vanity, fa finta di non vederla, le vorrebbe chiedere di andare da mondadori per dei fumetti. Le sembra stronzo, dopo quello che è successo. La vede che cammina con la schiena rigida, il gesso al polso, il bastone, è dimagrita, ha i capelli blu. Il numero di pugnette che Andrea si è sparato pensando di farsi Vanity è incalcolabile. Quando, questa cosa non l’ha mai detta a nessuno, quando Andrea ha iniziato a scrivere ‘Vaggina vs alienoids’, ecco, Vaggina era ispirata da Vanity. Andrea di Vanity conosce l’odore, il vero nome, sa come è morta la madre, sa che gran bastardo è il padre, ha visto qualche volta il fratello, sa che lavoro fa, conosce il giorno del mese in cui Vanity regolarmente cambia colore ai capelli, sta male in agosto nudo sotto le coperte senza Vanity e con Vanity.
Una volta lei ha detto ad Andrea, io non ho amici, ma se ne avessi uno vorrei che fosse come te, ma un po’ più fico. E questa frase è la cosa più gentile e intima che Vanity abbia mai detto ad Andrea e che comunque è sufficiente a farlo rodere nel suo stesso grasso per anni.
Vanity cambia colore ai capelli il giorno delle mestruazioni.
È regolare. Appena Vanity si sente le fitte e al cesso scopre la solita permutazione, si pulisce, infila la testa ne lavandino e prende una delle boccette.
Andrea si era studiato un intero saggio sul metodo Billings per esserne certo.

[da bisanzio aka la fotografia dell’animale]

Anche lamerotanti dice la sua contro TQ

La decadenza della letteratura – secondo TQ – è direttamente correlata alla corsa al denaro da parte degli editori in cerca di facili guadagni grazie alla pubblicazione di opuscoli o di libri fotografici su cani e gattini.
La verità è ben diversa.
Quando si parla di TQ, è vitale distinguere i fondamenti della dottrina di TQ dal modo col quale è stata in realtà applicata; è infatti indubbio che gli editor succedutisi nel corso del XXI secolo in varie case editrici hanno provocato la più grave forma di schiavitù intellettuale che la storia ricordi: burocratizzazione della vita e soppressione di ogni libertà individuale, persino di quella di pensiero, sono stati il loro risultato più eclatante. A farne le spese sono stati soprattutto i giovani neo-laureati e gli esordienti alla loro prima pubblicazione, ovvero le classi sociali più povere e deboli che avrebbero dovuto essere le prime a godere dei benefici del «paradiso intellettuale» di TQ. La cancellazione dell’editoria consumistica, dei romanzi di genere, del noir a basso prezzo, ha prodotto un baratro spaventoso tra una ristretta cerchia di ricchi docenti universitari e un oceano sterminato di poverissimi neo-laureati, con un vertiginoso aumento della criminalità – tanto che, nelle grandi città, chiunque ne abbia la possibilità si circonda di guardie del corpo.
La dottrina di TQ, ridotta all’osso, è di una semplicità persino disarmante: tutti gli scrittori sono fondamentalmente uguali ed hanno bisogni comuni (una casa, un lavoro, una brocca d’acqua, cultura elitaria…); l’Università deve provvedere a che siano soddisfatti questi bisogni primari, dopo i quali gli scrittori non avranno desiderio d’altro – se nessuno possiede più degli altri, non vi saranno aspirazioni ad avere di più, né invidie né gelosie. Tutto in comune e il necessario per chiunque: da questo si può comprendere come il TQ sia stato ben accolto, almeno inizialmente – prima che se ne producessero le ben note aberrazioni editoriali -, dalle classi sociali più misere e dagli idealisti: neo-laureati, operatori di call center, editor. Ad osteggiarlo, invece, fu sempre l’editoria consumista, preoccupata dai conati di decrescita felice che quest’ideologia propugnava.
Pur purgata dai suoi eccessi, la dottrina di TQ è sbagliata non perché sia moralmente ingiusta, ma perché inapplicabile agli scrittori: chiunque abbia un minimo di nozioni di letteratura sa che gli scrittori e i poeti soprattutto bramano avere sempre più di quello che hanno; è questo il motore della letteratura tutta. Inoltre, è errato pensare che debba essere l’Università a dirigere la vita e le azioni degli scrittori, soffocando le loro aspirazioni, i loro desideri e le loro naturali inclinazioni in nome di un ipotetico «bene comune» a tutto scapito del «bene individuale». I propugnatori del TQ, quando sono mossi da buone intenzioni e non da sete di potere o clientelismo editoriale, mostrano di ignorare completamente la psiche umana.
Si potrebbe obiettare che, nel mondo, vi sono gruppi di scrittori che decidono realmente di vivere di cultura impegnata, saggistica non divulgativa, riviste in francese e, non di rado, conducendo uno stile di vita austero: basti pensare a molte comunità di dottorandi nelle facoltà di lettere e filosofia. Ma bisogna precisare che si tratta di comunità di poche decine di individui di idee convergenti, e il cui ingresso è frutto di una libera scelta, e non imposto dall’alto.
Un esempio di TQ «etico e giusto» è quello messo in atto da case editrici come Alelphi, ovvero di case editrici che continuano a fare libri per intellettuali e che vengono lette solo da intellettuali, ma che per questo non vanno in libreria a convincere la gente a non comprare libri di grande successo come libri di gattini o di cagnolini. O le barzellette di Totti.
A questo proposito non tutti i TQ hanno capito quella del pappagallo, sai che mangia un pappagallo? Un gallo, capito, “pappa” “gallo”, pappa nel senso di “pappare”, oddiomio non mi tengo la pancia.
Ma basti anche pensare ai ragazzi giovani cannibali degli anni novanta. Gli scrittori giovani cannibali vennero invitati a riunirsi in collettivi di poesia e scrittura, dove i materiali di scrittura erano messi in comune e dove nessuno possedeva più degli altri. Oggi solo il 2% dei giovani cannibali è rimasto a vivere lì, tutti gli altri si sono trasferiti altrove scegliendo di lavorare, scrivere e pubblicare secondo i loro reali bisogni personali, anche se questo ha inevitabilmente portato a disuguaglianze economiche e sociali più o meno marcate.
Ma, almeno, l’uomo ha riacquistato la sua dignità, senza divenire un mero numero, un ingranaggio della macchina ideologica di TQ che, nella sua ansia di creare l’uomo ideale, ha sempre finito col distruggere l’uomo reale!

questo scambio tipo osmosi tra poeta e pubblico della poesia

Il semiologo si gira verso di me, mi squadra e fa un sorrisino amichevole, io sorrido di rimando, pare che mostrarsi i denti abbia un significato ambiguo e qui dentro bisogna stare attenti. È un tipo magro, con il volto che sembra parzialmente scavato dalla fame e parzialmente da qualcos’altro che non sai cosa sia, e preferisci non saperlo. Gli occhietti vitrei sono nascosti dietro ad un paio di occhiali finto trasandato ed indossa una giacchetta di lana verde, che dà l’idea di essere di terza mano, ma a guardarla bene capisci che è *nata* per sembrare una giacca di terza mano. Insomma, per farla breve è uno che sembra aver dormito sotto la cuccia del cane però puzza di soldi.
Sul palco intanto è salito un ragazzo smunto, con i capelli neri che gli cascano sopra sulla fronte, ha preso in mano dei fogli, si è messo a ridere parlando con i ragazzi delle prime file e poi ha detto al microfono: “No, io non uso il microfono!” e lo ha allontanato da sé.
Poi si è schiarito la voce e ha fatto questa cosa, nel senso che interpretava le cose che diceva, ad esempio urlava “Io sono!” e poi si rannicchiava per terra e faceva la vocina il falsetto e urlava “piccolo!” e poi si alzava e diceva che dentro a lui c’era però un grande, e si alzava sulla sedia e urlava con tutta la voce che aveva in corpo ” BOATO!” e poi scendeva ed è andato avanti così per parecchi minuti leggendo queste poesie in cui si parla di sé, oppure delle vittime della guerra e tutti non capiscono un cazzo di quello che dice ma ridono per questa cosa dell’interpretazione perché è una cosa che fa davvero ridere vederlo.
A quel punto il semiologo si è girato verso Koch e gli ha chiesto quanti anni ha quello sul palco e Koch gli ha detto boh, trentacinque.
“L’età giusta per smettere” dice allora il semiologo e si alza dicendo che lui esce a prendere dell’aria poi va in una galleria d’arte che di sera c’era la presentazione di un suo libro e forse passava anche Sanguineti e lo doveva salutare. Mi guarda, mi fa lo stesso sorrisino di prima, distratto, ed esce di scena, per ora.
Intanto il poeta ha finito, i suoi amici gli fanno l’applauso e il poeta riprende il microfono e dice che tra il pubblico c’è il suo maestro, indica un tavolino dove un tipo alto con lo sguardo teso alza un braccio e resta serio, non dice niente, e vicino a lui c’è una tipa vestita da fica, ma con la faccia brutta.
E, insomma, questo maestro si alza, fa tre passi con le sue gambe ossute, si piazza vicino all’allievo che si va a sedere tra il pubblico, c’è sempre questo scambio tipo osmosi tra poeta e pubblico della poesia, sembra quasi un gruppo di psicanalisi di gruppo, adesso tocca a te fare il pubblico ora è il mio turno fare il poeta, eccetera, insomma il maestro prende il microfono, si stira la camicia grigia sui jeans blù, e inizia a dare dei colpi di tacco con questa specie di evoluzione dei camperos che porta ai piedi, sono degli stivaletti di cuoio che gli arrivano a metà tibia, tira questi colpi di tacco sul palchetto di legno e tutti restano zitti a guardarlo fare ‘sti colpi e allora lui si avvicina al microfono e inizia pure a darsi dei pugni sul petto e declama -a memoria- dei versi, tipo vado per il mondo / con la terra dentro agli occhi, e mentre declama la terra dentro agli occhi si dà questi colpi sul petto in modo che diano ritmo alle cose che sta dicendo e anche con il piede, con i camperos.
“Uh” dico tra me e me e mi giro verso Koch che mi guarda e lo indica con un dito e poi mi si avvicina all’orecchio e mi dice ‘peso!’, e io mi allontano da Koch e mi passo una mano sulla faccia.
Intanto l’amichetto di Koch, che finora se ne era stato acciambellato vicino ad Antonio, mi si avvicina con la faccia e mi dice che quello è una merda, ma è meglio tenerselo buono.
“Mena?” chiedo intimidito dall’aspetto cupo del suo volto poetico, ma soprattutto dai grossi camperos a punta metallica.
“No” mi sorride nell’orecchio l’amichetto di Koch, ma -mi spiega- è uno che conta perché ha fatto il Festival Globale della Poesia, e ha trovato quel valore aggiunto che trasforma la poesia da semplice passatempo per ex-laureati, in vera poesia con la v maiuscola e la p pure.
“L’ispirazione?” chiedo io un po’ ingenuamente.
“No, i soldi” fa il mio confidente, e racconta che […]

(tratto da “L’ultima avventura del signor Buonaventura“, 2010 quasi 2011, editrice zona)

l’armadio tremonti

2001, treno, la seconda classe è stracolma, vado in prima classe, mi siedo, poi quando passerà il controllore dirò che mi sono sbagliato. c’è caldo, è il 2001.

caldo. chiudo gli occhi, provo a dormire, non ci riesco, ho gli occhiali scuri.
entrano i due.

sono in giacca e cravatta, hanno una valigetta marrone, avranno cinquanta/sessanta anni. entrano si siedono, io chiudo gli occhi, ho la testa contro il poggiatesta del sedile, le braccia incrociate la bocca appena socchiusa. dormo, ma non ci riesco.

quindi, dice il primo, noi alla finanza siamo tranquilli. capisci?
ma tremonti? dice il secondo.
il primo ride, sai cosa abbiamo noi alla guardia di finanza? dice.
cosa avete? chiede l’altro.
alla guardia di finanza abbiamo un armadio, lo chiamiamo armadio tremonti. dentro questo armadio ci sono dei fogli.
che fogli? chiede il secondo.

il primo mi guarda, penso, io respiro profondamente, come se avessi un sogno vivissimo, tengo gli occhi chiusi, non vedo niente.

il primo dice, fogli di certe cose che tremonti ha in svizzera.
il secondo ride.
il primo dice, quell’armadio è un po’ il nostro lasciapassare, finché c’è quell’armadio tremonti non ci può fare niente, se ne sta lontano.
il secondo ripete, l’armadio tremonti.
il primo ride.

il treno entra in una galleria, è tutto buio, apro gli occhi